Vorrei che fosse notte

primo capitolo

Dalla parte del diavolo


vorrei che fosse notte

Frank era uno che stava dalla parte del diavolo. Quando tornava dai suoi viaggi in Africa gli aprivo io la pesante valigia in pelle. Volevo vedere quali sagome di animali in legno avrebbero preso posto in casa, sagome spigolose che non ho mai fatto l’abitudine a vedermele attorno. Non solo animali, ma anche facce umane, larghe, tonde e piatte collegate da un collo schiacciato e sottile a busti raffiguranti ventri rigonfi d’aria o di feti.
In quel paese da cui aveva fatto ritorno, i corpi li seppellivano fuori dalle loro capanne per averli vicino sempre. I funerali erano per lo più riti dai toni della danza tribale: gente scura, scavata al torace ma colma di pace muoveva col corpo i colori sgargianti delle tele addosso.
L’aria calda era densa di suoni, versi e parole per me incomprensibili, che ascoltavo ed immaginavo vividamente tramite un registratorino che tenevo attaccato all’orecchio; un vecchio Philips che faceva girare a fatica quella cassetta appena arrivata dall’Africa. Anche se ero piccolo – e non avrei mai potuto dirne la ragione – sentivo che nessuna risonanza macabra stava attorno a quegli addii. Certo là la vita non era un paradiso, e forse per questo la gente non temeva la morte tanto quanto il dover raccogliere e sborsare la vita giorno dopo giorno, sotto il sole che rende lenti i movimenti del corpo e dell’anima piegata tranquillamente ai credo quotidiani. Sul tavolo di casa si sparpagliavano le foto di quelle persone nere e in gran gruppo, e Frank spiccava biondo sorridente e fiero in mezzo a loro – e tutti sgranavamo gli occhi davanti alla sequenza di tante gazzelle appese con ganci e corde per le zampe a testa in giù e squartate. Sangue, mosche, e quei sorrisi bianco su nero sotto il sole sono immagini che non mi hanno mai abbandonato. Come il ricordo di Frank.

Lui era il figlio più grande di mia nonna. E come spesso succede per vari criminali privati – aveva un acuto senso per le fatiscenti imprese sociali e umanitarie. Costruire una chiesa, mattone dopo mattone, in quel villaggio della Repubblica Centro-africana assieme al suo gruppo di operai volontari e abitanti, era stata l’ultima delle sue elogiate imprese. Era il fratello di mia mamma Letizia, mio zio, e ne temevo ogni respiro, ogni passo nella casa. Bastava una parola sbagliata, un gesto, per essere battuti come bestie disubbidienti. Ne poteva di angherie, senza che noi dicessimo nulla. Io lo vedevo di tanto in tanto, al ritorno da quei viaggi, ma quel poco che c’era bastava a fare della paura una disciplina. In realtà mi era andata fin troppo grassa. I racconti di mia madre sul suo passato erano molto peggio di tutto quello che potevo temere in quei brevi black-out annuali dati dalla sua permanenza.

Mia mamma, sua sorella, lo sapeva bene: con uno scarto di cinque anni se l’era trovato appena arrivata all’aria con quegli occhi canaglia puntati addosso. Era solo un bambino, ma già prometteva. Quando non toccava il corpo con le mani aveva il potere di toccarlo con la mente, facendo del timore altrui la sua forza. Molti anni dopo io ero solo un dentello di una rotella, di un ingranaggio gigantesco già avviato da tempo. Mi pare di essere nato con addosso quella pesante macinatrice, cupa ed incombente come le zone di montagna che cavalcano quel paesino vicino ad Asiago dove abitavamo, e l’unica sensazione nitida di quel tempo senza fine, è la velocità della paura, quella che ti sale su per il sangue come un’edera rampicante vorace. Corri, corri, scappa più veloce che puoi - salta la rete che ti divide il cortile del vicino, scappa più veloce che puoi - se ti prende ti farà male, e tanto. Lui è troppo grande per saltare, la romperebbe quella rete. Io mi ci potevo arrampicare e con un po’ di fortuna tentare il salto di un metro e mezzo senza farmi troppo male. Le mie gambette sono come molle, e le braccia si allungano e si snodano, le dita si diramano, mi aderiscono come molluschi appiccicosi ovunque prendano; sono ancora abbastanza piccole da conformarsi al mondo intorno. Io sì che posso tutto, ancora. E poi, lui nel frattempo dovrebbe fare il giro lungo attorno – sempre che non salti – e io dovrei già essere lontano, e andare non lo so… oltre i prati di paglia pieni di alberi, in mezzo alle foglie e ai licheni: mettermi lì, stare buono, lì sotto le ombre dentellate – finché non arriva sera che l’ombra è tutta intorno e io scompaio. Ma cosa dico? Lui è grande troverà il modo per prendermi, abita pure nella mia casa, dove ho in mente di andare? Eh, ma il fiato ce l’ho ancora! cosa ti credi? Ce la faccio, ce la faccio non te la do vinta, io posso tutto sì, questa volta non mi prendi. Non adesso.

E altri due ragazzi della contrada stavano a guardare, si divertivano, sorridevano. Ma da che parte stavano? Dalla sua, dalla parte di quel diavolo.
Avevo solo attaccato un piccolo adesivo rettangolare e giallo raffigurante un orologino al centro del suo quadrante in vetro di orologio vero. E forse, forse sì, sfilato qualche cioccolatina di riso soffiato sciolta dalla sua tasca, a lui piacevano tanto e ne aveva sempre in abbondanza di quelle, credevo non se ne sarebbe accorto. Io correvo, correvo, e sentivo le risa miste ai fiatoni degli altri ragazzi; anche loro correvano per non perdermi di vista. Frank arriva alla rete verde - cerca di scavalcarla, ma ha troppo peso e si sta per piegare, se ne frega, ci prova lo stesso, la deforma, è al di qua, ormai mi è alle costole - io mi guardo indietro, scappo anche se mi vien da tremare. Vado, vado non voglio pensare, ho troppo poco fiato per piangere, anche per la paura non ho tempo. Pure gli altri due ora mi inseguono, hanno capelli neri ricci e fitti, loro sì che ce la fanno a saltare la rete, i loro nervi sono d’acciaio elastico. Quasi mi raggiungono, mi prendono che sono ancora in corsa, uno mi tiene da un braccio e uno mi tiene dall’altro, io mi lascio a peso morto, dondolando – cerco di liberarmi ma non posso. Frank e mi è di fronte. “Cos’hai fatto eh? Cos’hai fatto stupido al mio orologio?”. Aspetto solo che le sberle e le malmenate passino, non provo nemmeno a piangere, sento solo i rumori del male, nemmeno il male; le risate di tutti, divertiti di essere stati utili al diavolo. Poi se ne vanno. Mi lasciano lì. E le ombre stasera anche se calano, non mi hanno messo al sicuro dal giorno. Nell’orizzonte che imbrunisce quei due demoni vanno via saltellanti incrociandosi l’un l’altro sulla strada, Frank gli è davanti, sudato, biondo ed eretto.


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